Sapri tradisce sé stessa e si consegna all’abbrutimento
“Mai nessun popolo come quello italiano è stato tradito dai suoi governanti in maniera così determinata, ossessiva, cinica, perversa.” -
si lancia Ida Magli a chiosare gli Italiani nella sua ricostruzione storica. Mai altra nella specie, nell’amara attribuzione, pure Sapri non lesina la sua grama testimonianza. Baia naturale, con le sue delicate zone urbane adagiate al di sotto del livello marino, una piana costiera - l’area abitata - priva di periferia e confinata tra una battigia ciottolosa e i fianchi spogli del monte Olivella, eletta apparentemente dallo stesso Cicerone a parva gemma maris inferi, si è dotata spontaneamente di un’economia centrata principalmente sul turismo.
Tanto oscura quanto incerta l’origine della cittadina, così è a calare una mattina da poco trascorsa sulle pendici di un destino come l’ombra d’infausto travaglio l’autorizzazione concessa dall’Amministrazione Comunale all’installazione, a due passi da mare-spiagge-lidi-mercati e abitazioni, di un impianto di lavorazione inerti e attrezzature per betonaggio, qui utile campo base a servizio di un cantiere ANAS a Maratea in Basilicata, la regione confinante. I tempi nemmeno pochi, si parla di diversi anni, che tradotto in termini di croniche tumescenze metriche a interessare una latitudine, palesano il rischio di trasformare l’impaccio in una presenza incombente, rognosa e reboante per le generazioni pure a venire.
Al di là delle solite ciarle politiche,
meno disagio possibile per la popolazione bla bla
siamo aperti a qualsiasi tipologia di confronto bla bla
adottare una scelta nella direzione della volontà della popolazione bla bla,
di un dibattito pubblico assente, di una democrazia partecipativa solo disegno sprezzato, delle esigenze in materia di protezione dell’aria, delle acque e fonica insondate, tutt’al più secretate, ciò che impedisce di comprendere gli intrecci e di trovare i bandoli è l’infondato smarrimento delle ragioni per una riserva rispetto alla scelta logistica di due anni fa, stessa opera, stesso impianto, stessi sovrani decisori:
l’intenso traffico di mezzi pesanti
lo sviluppo dell’area portuale penalizzato
la stabilità dei fabbricati esistenti nelle prospicienze pregiudicato
i disagi e gli inconvenienti determinati da macinazione e conversione
la destinazione approvata dell’area ad insediamenti di carattere turistico
ecc.
A giustificare oggi un cambio di passo s’affannano nell’ingloriosa arrampicata le asettiche versioni del titolo abilitativo per la realizzazione di una volumetria ad uso produttivo conforme al vigente PUC, del potenziamento e della riqualificazione della viabilità esistente e la profferta in coda delle ditte appaltatrici di ripristinare una viabilità presente per migliorare l’accesso ai lotti interessati dall’intervento. Andando a sommarsi a ciò il goffo e sgraziato arretramento degli stessi decisori all’alba di una spontanea mobilitazione popolare in odor di contrasto, è alla mente qui abilitata che s’affollano le domande…
Chi è mai colui, sufficientemente ragionevole, che in casa propria pianta un ingombro gravemente incompatibile con l’ambiente naturale circostante, e non soltanto in ordine a un impatto visivo? Non ha forse anche un luogo, per il solo vezzo di un’estensione, il diritto all’onore e alla personalità? Cosa ci guadagna il territorio in termini di attrattori turistici tanto fiancheggiati dalla stessa Amministrazione (qui) con un innesto assai molesto che lungi dall’impreziosire una foggia, la deturpa, la inquina, l’assorda?
Orbene, per carità cristiana siamo pronti a pensare che un’attitudine a mostrarsi sì lesti all’abiura si spieghi con il fatto che non sanno quello che fanno. La volgarizzazione di un cedimento per i soliti trenta denari d’altronde andrebbe ad ingombrare affreschi e pagine di una storia già prodigalmente giunta a noia, con quell’uggia addosso che nemmeno il vento dell’est intriso di bestialità ha fama di scrollare.
Sabina Greco